Aparigraha: un difficile distacco
- Francesca d'Errico
- 3 mar 2024
- Tempo di lettura: 3 min
Ho sempre considerato Aparigraha (distacco) il più difficile degli Yama. Se è relativamente semplice dichiararsi a favore della non violenza, della sincerità, dell'onestà, della moderazione, quando si arriva al distacco, le cose cominciano a farsi più difficili. Non è facile, ad esempio, distaccarsi da situazioni verso cui abbiamo legami affettivi. Esercitare il distacco a volte ci crea sensi di colpa verso gli altri o verso noi stessi. E nemmeno è facile distinguere tra distacco e indifferenza.
Le cose non si fanno più semplici quando dovremmo distaccarci proprio da ciò che amiamo di più, e nel caso di noi Ashtangi, l'oggetto della nostra passione è proprio la pratica.
Ma come, ci diciamo, prima dovremmo ardere di disciplina, e poi distaccarci proprio da ciò che abbiamo imparato con fatica a fare nostro, giorno dopo giorno, per anni - e nel mio caso, per decenni?
Eppure questo benedetto distacco è bene imparare a conoscerlo, perché prima o poi ne avremo bisogno. Se ci identifichiamo con i nostri progressi, con la nostra prodezza nell'esecuzione di asana o transizioni, cosa resta della pratica il giorno in cui non potremo eseguirla?

Nella mia ingenuità, ho sempre pensato che, qualora non avessi potuto praticare, avrei trovato il modo di sostituire il tempo trascorso sul tappetino con altre pratiche - Pranayama, meditazione, letture. Ed ecco che, un anno e mezzo fa, sono stata brutalmente messa alla prova da un imprevisto. Dopo anni di fedele servizio, il mio ginocchio sinistro, per la verità non messo benissimo fin dai vent'anni, a seguito di un infortunio durante una performance di danza, ha pensato bene di lasciarmi letteralmente a terra.
Stavo dimostrando l'uscita da Triang Mukha Eka Pada Paschimottanasana, quando ho udito un crack insolitamente più sonoro del solito, ed è apparso subito evidente che stendere la gamba non era un'opzione praticabile. La risonanza ha dato come esito una diagnosi inequivocabile: frattura del menisco a manico di secchio. Dopo otto mesi di modifiche, pratiche in punta di piedi, tutori, fisioterapia, laser, infiltrazioni che a poco o nulla sono serviti, mi sono dovuta rassegnare al fatto che esistono cose che lo yoga non può risolvere, e mi sono rivolta ad un chirurgo ortopedico. Per la prima volta (se escludiamo un infortunio alla schiena in età molto giovane) mi sono ritrovata a dover esercitare il tanto temuto distacco perché, lo sapevo bene, non avrei potuto riprendere la mia pratica immediatamente dopo l'operazione.
Come è andata? Bene ma non benissimo, devo ammettere: il distacco resta per me il più ostico degli Yama. Sicuramente ciò che mi ha aiutata di più è stato cercare di mettere in ogni movimento dedicato alla mia riabilitazione la stessa intenzione che ho sempre messo nella mia pratica. Anche se, oggi come 27 anni fa, non trovo in nessun altra forma di esercizio fisico gli stessi benefici che provo praticando Ashtanga Yoga. Anche quando è necessario modificarne in parte le sequenze, come durante il recupero da un infortunio.
Sono stata fortunata, perché grazie a tanta determinazione, e al supporto di fisioterapisti ed esperti di medicina rigenerativa, dopo un solo mese ero già in grado di praticare in modo decente. E nel giro di sei mesi ho recuperato quasi tutti gli asana e le transizioni. Oggi, a otto mesi di distanza dall'intervento, sono tornata a praticare come prima. Non è stata una passeggiata, ma a quasi sessant'anni mi ritengo molto felice di aver deciso per l'operazione. Nel caso vi troviate in una situazione simile, il mio consiglio è di affidarvi solo a mani esperte, e di specificare al chirurgo qual è la range of motion che volete recuperare dopo l'intervento.
A parte questa digressione, tornando ad Aparigraha, mi sono resa conto di avere ancora molto da lavorare sul mio legame con la parte fisica della pratica, che per me resta ancora un momento quotidiano di profonda gioia, uno spazio del cuore in cui mente e corpo diventano tutt'uno e mi permettono di percepire quello stato di quiete estatica che, lo ammetto, stando ferma difficilmente trovo.
Quindi ad Aparigraha dico: "so che dovrò affrontarti. Ma non oggi". E torno a studiare me stessa, riscoprendomi ogni giorno sull'amato tappetino.
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